Tra la caduta di Salvador Allende e il golpe di Pinochet, per le strade del Cile i versi di un poeta infiammavano un popolo oppresso.
La verità declamata da Pablo Neruda lo portò lontano dai suoi esili, lontano da una patria che non lo voleva e da un popolo che lo amava. Lo portò in quelle città splendenti di Rimbaud che lui stesso citò durante il suo discorso per il conferimento del premio Nobel della Letteratura nel 1971
“All’alba, armati di una ardente pazienza, entreremo nelle città splendenti” profetizzava il poeta francese.
Neruda salì sul palco e impastò le mille solitudini dell’essere umano con il dovere tra queste mille, di cercarsi e trovarsi “persino nelle più lontane e isolate solitudini di questo mondo esiste una comunicazione, una sollecitazione, una domanda e una risposta da sconosciuto a sconosciuto”.
Non tentennarono i versi a differenza dell’uomo, tentato alle volte dal potere e dalla vana gloria.
“Il miglior poeta è colui che ci prepara il pane quotidiano: il panettiere più vicino, che non si crede dio. Svolge ogni giorno il suo maestoso e umile lavoro di impastare, infornare, dorare e consegnare il pane di ogni giorno come dovere comunitario. E se il poeta riesce a raggiungere questa semplice coscienza, anche la semplice coscienza potrà convertirsi in parte di un colossale artigianato, di una costruzione semplice o complessa, che è la costruzione della società, la trasformazione delle condizioni in cui vive l'uomo, la consegna della sua merce: pane, verità, vino, sogni”.
Il discorso continua tra mille illuminate parole, scuote le coscienze di una Europa troppo lontana dal sud America, troppo ricurva su se stessa, ma la sua voce risuona “Se il poeta diventa parte integrante di quella lotta mai sprecata per consegnare ciascuno nelle mani dell'altro la propria parte di impegno, la propria dedizione e tenerezza verso il lavoro comune di ogni giorno e di tutti gli uomini, allora il poeta prenderà parte, noi poeti prenderemo parte, al sudore, al pane, al vino, al sogno di tutta l'umanità. Solo per questo cammino inalienabile che ci fa essere uomini comuni verremo a restituire alla poesia l'ampio spazio che in ogni epoca le è stato ritagliato, e che noi stessi le ritagliamo in ogni epoca”.
Un uomo solo su un palco immenso che neanche la sua fisicità riesce a riempire. Sembra piccolo, ma le sue parole volano, crescono, ampliano gli spazi riempiendoli “Non c'è una solitudine inespugnabile. Tutte le strade portano allo stesso gioco di parole: alla comunicazione di quello che siamo. E dobbiamo attraversare la solitudine e l'asprezza, l'incomunicabilità e il silenzio per arrivare al recinto magico nel quale possiamo danzare goffamente o cantare con malinconia: in quella danza o in quella canzone si consumano i riti più antichi della coscienza di essere uomini e credere in un destino comune”.
Danzano e cantano le parole di un uomo provato dalla malattia e dal dolore e sul quel comune sentire costruisce il cammino del genere umano, Albert Camus nel 1957 nel suo discorso del banchetto, “i veri artisti non disprezzano nulla; si sforzano di comprendere, piuttosto che giudicare. E se hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere che quello di una società dove, secondo le grandi parole di Nietzsche non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale”. Piegato ma non vinto, pronunciò parole forti come la sua tempra e salde abbastanza da reggere le sue gambe stanche.
Gli anni scorrono avanti e indietro, ma il filo rosso che unisce poeti e scrittori di ogni angolo del mondo è il canto degli ultimi, degli oppressi, delle paure e dei fallimenti che albergano dentro e fuori di noi. “Non è niente di nuovo. L'antico mandato dello scrittore non è cambiato: egli ha il compito di esporre i nostri numerosi, dolorosi difetti e fallimenti, di dragare l'animo umano portandone alla luce i sogni oscuri e pericolosi, affinché possiamo migliorarci. D'altro canto, lo scrittore è delegato a dichiarare e celebrare la provata capacità umana di grandezza di cuore e d'animo, di dignità nella sconfitta, di coraggio, compassione e amore. Nella guerra infinita contro la debolezza e lo sconforto, sono queste le splendenti bandiere da sventolare per incitarci alla speranza e all’emulazione” disse John Steinbeck nel 1962 quando ricevette il Nobel.
Tredici anni prima il suo connazionale William Faulkner davanti all’Accademia di Svezia cantò l’immortalità dell’essere umano “Credo che l'uomo non si limiterà a sopravvivere, ma prevarrà. Egli è immortale non perché, unico fra tutte le creature, ha una voce inesauribile, ma perché ha un'anima, uno spirito capace di compassione, sacrificio e resistenza. Il dovere del poeta, dello scrittore, è di questo. È suo privilegio aiutare l'uomo a non arrendersi, rincuorarlo, ricordargli il coraggio, l'onore, la speranza, l'orgoglio, la compassione, la pietà e il sacrificio che sono stati la gloria del suo passato. La voce del poeta non deve limitarsi a esse re la testimonianza dell'uomo, può essere uno dei sostegni, dei pilastri che lo restano a resistere e a prevalere”.
Resistere alle barbarie, all’inverno del nostro scontento, all’inferno che è qui tra noi, come nelle parole di chi, prima e dopo, ha creduto nella capacità di restare umani, sempre e comunque.