Dominic Molise ha un talento innegabile che lo porterà lontano. Forse. Lontano dalla povertà, dai sogni spezzati, dalla realtà.
Ma poi quella realtà di figlio di immigrati non è poi così brutta, non è una cosa da scacciare completamente da sé per far posto ad un futuro radioso. Quella realtà è in lui, come il sangue che scorre nelle sue vene, come il suo braccio portentoso che cura e coccola. Dominic è povero, vuole un futuro diverso, ma era un italiano anche lui.
“C’era miseria anche in Abruzzo, ma era più dolce, condivisa da tutti come pane che si passa di mano in mano. Anche alla morte partecipavano tutti, e così al dolore, e alla prosperità, il villaggio di Torricella Peligna era come un solo essere umano. Mia nonna era come un dito strappato dal corpo, e non c’era niente nella nuova esistenza che avrebbe potuto mitigare la sua desolazione”.
E si dimena nello spazio troppo stretto nel quale contiene sé stesso, uno spirito italiano che sogna come un americano. “Ero steso in quella notte bianca e guardavo il mio respiro che formava piume di vapore. Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori…se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa, poi mi addormentai”. Solo John Fante poteva scrivere di un Dominic Molise che è come tutti gli Arturo Bandini del mondo. O meglio d’Italia. E metterci dentro tutto quell’essere italiani, compreso il senso della tragedia che a un certo punto arriva sempre. 1933 Un anno terribileedito da Einaudi e tradotto da Alessandra Osti racconta un po’ di tutti noi, anche se non siamo adolescenti, non giochiamo a baseball, non abbiamo un braccio sinistro formidabile che curiamo ogni giorno con il balsamo Sloan e non abbiamo le orecchie a sventola.