Raccontar storie ha il sapore di un tempo passato che cerca di non svanire, e continua a scandire vite grazie all’opera dell’ultimo cuntista.
“La tradizione del cunto è importante perché è un mezzo di comunicazione tra i più antichi, è patrimonio dell’uomo, dell’essere vivente che ragiona e che va avanti grazie alle esperienze di chi c’è stato prima di lui”.
Il cunto siciliano, tradizione millenaria che passa di voce in voce risuona oggi in quella di Mimmo Cuticchio, ultimo maestro con il suo timbro profondo e roboante e quell'accento siciliano che conserva e accarezza ad ogni parola.
Gira il mondo con i suoi pupi e con la sua voce. Con quella voce che ti riduce al silenzio, perché vuoi catturare ogni sua inflessione.
“Io sono un teatrante. Il mio dovere è portare avanti una pratica che non ho inventato io, che viene da altri maestri. Il cunto ha una storia di mille anni, c’è qualcosa che appartiene alla tradizione come il letto di un fiume ma conta anche l’acqua che scorre. Cosi nelle tradizioni non c’è niente di fisso, è tutto in movimento, però è importante se vogliamo tenere vivo il fiume”.
“Io canto per far viaggiare la mia voce” dice il maestro. E diventa portatore e testimone di mille e mille voci risuonate per anni nella sua Sicilia. Come la voce dei detenuti che a inizio Novecento viaggiava tra le sbarre e portava messaggi a chi doveva sentirli.
Ma quel raccontar storie per un pubblico spesso analfabeta, che si incontrava in una piazza o in un vicolo per ascoltar storie di cavalieri e briganti, oggi ha una dimensione diversa. Oggi è rinchiuso nelle mura di un teatro, oggi il suo è un pubblico colto ma disattento. Non c’è più quella dimensione del silenzio assoluto. “Io ho vissuto la mia infanzia ascoltando i maestri, mio padre per i pupi, Celano per il Cunto, e ho conosciuto il pubblico tradizionale con l’ascolto, l’attenzione, nessuno parlava, nessuno disturbava. Poi mi sono trovato ad affrontare un nuovo mondo, quello della perdita del pubblico tradizionale perché con l’avvento della televisione non uscivano più, restavano in casa. Parto da una storia ottocentesca e arrivo ad affrontare un pubblico nuovo. Ho dovuto capire cosa dare ad un pubblico che non era più analfabeta, era occasionale e non disponibile ad ascoltare per due ore. Ora ho tolto le ripetizioni, la prolissità prima necessarie per far memorizzare. Ed ecco il fiume che scorre, l’acqua”.
Batte i piedi con forza a spezzare il ritmo, a trovarne un altro, a destare attenzione. Lo stupore è nella sua voce che riesce con pienezza a colmare ogni vuoto.
Il fiume del cunto continua a scorrere, ma dove è nato e dove sfocerà? “Parte dai cortili di Palermo e arriva qui questa sera. Io ho seguito un maestro che era l’ultimo contastorie di tradizione che ha vissuto fino al ’73. Peppino Celano io l’ho seguito sin da bambino, ho abituato l’orecchio, e negli ultimi anni della sua vita, quelli di crisi per l’opera dei pupi, lo seguii di proposito per imparare da lui”.
Quel Peppino Celano che lo investì del titolo di maestro del cunto, regalandogli la sua spada, quella con la quale imitava Orlando e tutti i cavalieri. Uno spadino del Settecento che è il simbolo di una storia che continua a vivere.
Cuticchio sale sul palco, solo, senza scenografia e senza orpelli. Lui solo che per due ore parla, racconta, una storia che ci rimanda a tempi antichi di dame e cavalieri, di onore e principi. Una storia che oggi più che mai va raccontata “C’è una giungla di ignoranza, di incapacità di comunicare. La figura del narratore è importante proprio perché c’è ancora qualcuno che quando parla dà significati alle parole, attraverso il suono e il significante della sua voce, comunica ciò che deve comunicare. La bellezza del cunto è scoprire come un narratore antico riusciva a costruire una storia. L’ascolto era fatto di significato e di suoni. Ieri c’era silenzio, oggi è tutto tempo di musica”.