Era il 1937 e John Steinbeck non aveva ancora raccontato l’epopea di Furore.
Scrive a Londra un breve romanzo, racconta la vita degli ultimi, di chi cerca un riscatto, di chi non conosce altro che la fatica di vivere per un lavoro che lo indebolisce, lo consuma sino ad annientarlo. Un bagliore di quello che due anni dopo sarà il suo capolavoro assoluto.
Scrive Uomini e topi (edito da Bompiani) e racconta un mondo, che è suo più di chiunque altro, non per provenienza, ma per capacità di dipingerlo usando tutte le sfumature dello scibile umano.
La storia di George Milton e Lennie Small è un pretesto per quella scrittura sociale che l’ha sempre accompagnato, come riconosciutogli dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze che conferendogli il Nobel nel 1962 disse“Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la percezione sociale acuta”.
La traduzione di Michele Mari che sostituisce quella di Cesare Pavese si avvicina maggiormente al linguaggio originale del romanzo che vuole, per precisa intenzione dello scrittore, arrivare a tutti.
Il mondo di Uomini e topi è l’America vasta di Steinbeck con i suoi campi di grano e orzo, la ferrovia, il fiume che scorre lento e poi i suoi personaggi, la cattiveria inutile di Curley, la saggezza di Slim, l’orgoglio di Crooks che solo per un attimo cede alla malinconia della solitudine e su tutto l’amicizia di George e Lennie, uniti da un legame che va oltre l’opportunismo, la necessità, il bisogno, che esiste e in quanto tale va conservato e custodito, a qualunque costo.