L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Sul lavoro che non c’è e su quello che non ci sarà. Ci penseremo domani. Non oggi.
Oggi primo maggio festa dei lavoratori, lontane le lotte e le rivendicazioni, le 8 ore son conquistate. 8, 4, Smart working, full time, part time, co.co.co Inglesismi e sigle, quanta poca chiarezza. Precari, autonomi, piattaforme sindacali, contratti collettivi, sì, sì, sì. Tutto inutile se il lavoro non c’è. Saracinesche chiuse, serrate, spente le macchine, bloccate le attività ma non l’informazione che dà numeri, dei morti, e dimentica i nomi ed anche i vivi, chi resta, la bolletta da pagare e l’ufficiale giudiziario che arriverà. Sangue e lacrime, versati da chi ha lottato, per le strade, nelle fabbriche, 8 ore. Sangue e lacrime, vere. Nella festa dei lavoratori, di chi un lavoro lo ha o lo ha creato, di chi si barcamena ora su ora per arrivare a ciò che basta per sopravvivere, che vivere è per privilegiati, oggi in questa festa il pensiero va a chi il lavoro più non ha. A chi ha perso tutto e vive del niente, a chi non ha voluto cedere, a chi a suo modo lotta per un diritto, costituzionalmente sancito. Festa di tutti allora, nelle piazze vuote, nei concerti virtuali, celebrativi della visibilità. “Lu sule calau, calau, schiatta patruno ieu me ne vau” (il sole tramontò, muori padrone io vado via) recita una canzone della tradizione popolare per la rivendicazione della remunerazione giornaliera per i lavoratori a giornata. Che di questi lavoratori ce ne sono ancora tanti, oggi costretti in casa dalle misure emergenziali. E festa sia con l’augurio che il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione non resti un mero enunciato.