Un camelotardo che per uno strano scherzo del destino assomiglia ad una giraffa senza esserlo, si muoveva lungamente verso una selva di selci
dove gli odori non erano quelli che avrebbe immaginato, “un carminativo mi aiuterebbe, la settimana scorsa ho assistito ad un abigeato che mi ha intrecciato le budella”, disse dall’alto del suo destino, così alto da farlo vivere con un perenne capogatto.
I colori erano un tripudio di emozioni, il caldo solidago, il tenero eliotropo, l’evanescente carta da zucchero, il gainsboro delle nuvole si disperde, arriva il tramonto e con lui il pervinca e lo zaffiro della notte.
“Non mi siedo ad un banchetto gargantuesco da quando non ho più facoltà di sedermi, lì giù in basso è tutta un’altra storia, quel gaglioffo del tuo amico continua smargiasso a ostentare ciò che non è, ciò che non ha, disturbandomi col suo panurgismo, passivo e gregario”. Il camelotardo è solo un protoquamquam con la sua ossessione per le ripetizioni, un inutile cacozelico susseguirsi di vocali e consonanti. Fosse una ecolalia almeno sarebbe piacevole nel suono.
Molce l’anima il pensiero di qualcosa di più dolce che spazzi via le contumelie di cui non ha coraggio di ammetterne lo sproloquio, anzi continua a farne panolidia, contraddicendo se stesso ad ogni passo.
È un blittri inutile, senza valore. Non come sua sorella, un esempio di rutilante magniloquenza che risuonava nell’aria armonica come una melopea. La vidi un giorno tra le crode perdersi e non tornare più, lasciandomi senza un afflato di speranza.
Resta il bombastisco discorso di quel trofio del suo germano, ma la foresta bisbiglia un messaggio della sua sorella uterina “non preoccuparti una gabola la troviamo”.