Paola Fortunato nasce tra i tre campanili di Andria, poi gli studi la portano nella città eterna dove assorbe bellezza e grandezza.
Infine vola nella ville lumière e lì trova la luce giusta per illuminarsi. Tira fuori quell’arte che è sempre stata dentro di lei. Scompone parti di un insieme e li ricompone come in una visione. E ogni particolari diventa il fulcro di un’insieme, opera nata da un sogno.
Sei nata in una cittadina del sud Italia e ora vivi della tua arte a Parigi. Ci vuoi parlare un po’ di te e del tuo percorso?
Purtroppo, o per fortuna, non vivo ancora della mia arte, vivo del mio lavoro di architetto che è il motivo principale per cui sono tornata a Parigi. Infatti qui ho già vissuto circa dieci anni fa, durante i miei studi. Ho studiato a Roma dove ho frequentato l’università e poi ad Utrecht dove mi sono specializzata conseguendo un diploma di Master in Public Space Design, per poi tornare di nuovo nella capitale e collaborare con Tevereterno, una Onlus che si occupa della rigenerazione urbana del fiume attraverso eventi di arte contemporanea. In seguito sono tornata ad Andria, la cittadina del sud Italia dove sono nata.
Insomma potremmo dire che il comune denominatore del mio percorso è il continuo ritorno e in particolare “il dolore del ritorno”, la nostalgia in altre parole, alla quale ho dedicato anche uno dei miei collage. Non a caso quello a cui sono più affezionata.
Com’è entrata l’arte nella tua vita?
Credo ci sia sempre stata, a partire dai vari viaggi in Italia con i miei genitori i quali mi hanno educato alla bellezza fin da subito. Ora che ci penso il primo collage l’ho visto fare a mio padre. Mischiava le sue foto del passato con quelle dei suoi cantanti preferiti.
Forse la domanda più appropriata nel mio caso sarebbe “quando è venuta fuori da me”. Ho cominciato davvero a “buttar fuori” durante uno di questi ritorni. Il più importante finora, quello ad Andria.
E proprio qui, grazie al preziosissimo incoraggiamento di Daniele Geniale e Valentina Lorizzo ho esposto i miei primi collages nel corso di una mostra collettiva di arte illustrazione e street art da loro organizzata, il Mais festival.
Dopo tanti anni lontana da casa, ho dovuto affrontare una serie di questioni che mi riguardano e ho cominciato davvero a guardarmi dentro e a fondo. “L’arte”, se così possiamo chiamare ciò che produco, è nata per me come una esigenza, un impulso quasi involontario. Un automatismo psichico direbbero i surrealisti.
Colla, filo, ritagli di giornali, vecchie foto in bianco e nero e disegni, confluiscono tutti nei tuoi lavori. Sono parti di un insieme che vuoi creare?
Sono parti di un insieme che è dentro di me e che continuamente cerco di decostruire e interpretare.
Non credo di creare nulla, è già tutto lì e io mi limito semplicemente a rappresentarlo con i vari mezzi a disposizione, a partire dalla fotografia.
Direi che il processo è molto simile a quello dei sogni o quello dell’analisi. Procedo per associazioni libere, comincio a ritagliare incollare disegnare, e ad opera finita osservo analizzo il risultato. Questo mi permette di capire ogni volta qualcosa in più di me, e quindi degli altri. Potrei dire che non sono io a fare l’opera ma l’opera che si fa tramite me e mi racconta qualcosa di me che prima non sapevo, non vedevo.
C’è erotismo, una sorta di carnalità nei tuoi lavori. Lo scorticare i corpi mostrandone l’interno è lo scorticare i sentimenti per giungere al reale?
Non saprei. Ciò che so è che corpo e sentimenti per me sono una cosa sola: la pelle è il tramite di questo discorso, ed è reale. Questa analogia infatti si infiltra nel nostro linguaggio quotidiano quasi in maniera inconscia. Mi è sempre piaciuta l'idea di riportare in immagini le espressioni che coinvolgono i nostri organi interni e che usiamo quotidianamente nel nostro linguaggio quando parliamo di sentimenti. Nella serie innHer per esempio "il cuore in gola, farfalle nello stomaco” e via dicendo.
Collego le viscere all’interiorità che oggi è diventata molto più oscena dei contenuti espliciti del porno. Nella serie erotomy censuro l’esplicito per andare più a fondo. Una censura attraverso la “cesura” dei corpi e della carta che mette a nudo e rivela l’oscenità dei sentimenti, del desiderio, mostrando un mondo imperfetto e a colori.