Cercare uno sguardo complice nella folla, guardarsi intorno e fissare un punto su una parete fingendo sia una entità che ascolta le parole.
Nella sala gremita le voci non giungono alle ultime file, bisogna dare loro ampiezza, spingerle su con il diaframma, modellare rotondità. Voci per dare spazio ai pensieri, articolando frasi che siano dettate dal cuore e non si abbandonino al peso delle emozioni. Un po’ come gettare un amo e sperare che il pesce mangi l’esca senza abboccare.
Eppure mentre parli ad un tratto la voce si ferma, qualcosa di straordinario si muove in te come un’onda, trascina via quel sentimento sopito da tempo, come fiume in piena che tutto travolge e le funi dei soccorritori sono le mani e gli occhi di chi ti sta accanto nel viaggio, nell’esperienza, ancore ancora di salvezza e salpare per nuove mete è aggiungere voci e orecchie che possano ascoltare.
Sotto un tetto in legno, le frasi volteggiano nell’aria, il carrubo nel giardino vicino si ferma ad ascoltare, inspira solitudini espira condivisioni. Non cercare moltitudini, ma solitudini da sovvertire, per colmare silenzi imposti da ragioni sconosciute, da vergogne note, da paure ingiustificate.
Sotto un tetto in legno scivola il tempo come inchiostro su foglio e non più occorre poesia lì dove la prosa ha carattere di concretezza, espediente per abbattere distanze, rompere le righe, insinuarsi come rivelatrice di espedienti già noti sebbene taciuti.
Le montagne da scalare vette dalle quali scoprire nuovi orizzonti in cui sentirsi infinitamente solo quello che si è, parte di in tutto. Su questa vetta di persone in ascolto non serve gridare, la chiave ha già aperto la serratura, le parole lasciano il segno, non ci sono più solitudini. Basta uno sguardo, un’ancora ed è viaggio, nuovo.