Da un lato l’uomo senza filtri dalle opinioni spesso offensive e denigratorie, dall’altro l’artista con una visione che ha anticipato i tempi.
Oliviero Toscani scatto dopo scatto ha scritto il manifesto del suo pensiero politico, civile e sociale. È stato tra i primi ad occuparsi di Aids, anoressia, vittime di guerra, fame nel mondo, razzismo, omofobia. I contrasti cromatici di una parte della società bigotta e discriminante, lui li accosta, unisce, abbraccia.
Probabilmente nulla è più importante per Toscani dello scatto, quello che c’è prima, quello che verrà dopo, il modo in cui lo scatto è stato realizzato. Dall’altro lato dell’obiettivo, spogliando il fotografo di tutto ciò che gli ruota intorno, si osservano le immagini di un precursore. In un mondo in cui prendere posizione è scomodo, Toscani ha sempre avuto un punto di vista e non ha mai avuto paura di esprimerlo.
Il castello Carlo V di Monopoli sino al 26 lo celebra con la mostra “Oliviero Toscani. Professione fotografo”, a cura di Nicolas Ballario e Lorenzo Madaro (aperta tutti i giorni dalle 10 alle 13.30 e dalle 16.30 alle 21 fino al 30 giugno, dal primo luglio la mostra sarà aperta dalle 10 a mezzanotte).
Una selezione dei suoi scatti dal 1960 ad oggi, dalla celebre campagna per i jeans Jesus “Chi mi ama, mi segua” del 1973 con in primo piano il fondoschiena di Donna Jordan strizzato in un paio di shorts alle celebri e contestate campagne Benetton.
L’humus in cui cresce ha l’odore del solfito di potassio, suo padre Fedele è uno storico fotoreporter del Corriere della Sera, la sorella Marirosa con il marito Aldo Ballo, sono i fondatori dello studio fotografico Ballo&Ballo. La prima foto pubblicata è di Rachele Mussolini, il padre quando ancora era un bambino, lo porta al funerale di Mussolini, lui si perde tra la folla, guarda Rachele piangere e scatta con la sua macchina fotografica. Quell’immagine sarà pubblicata sul Corriere della Sera, lui aveva appena 14 anni. “Io fotografo l’umanità” dirà anni dopo e lo farà sempre mescolandola. L’umanità una con le sue mille sfaccettature.
In Occhi mette in primissimo piano gli occhi di un ragazzo nero, uno verde chiarissimo e uno marrone profondo. David Bowie nel 1992 vede e legge dei disordini di Los Angeles, si ricorda di quell’immagine che gli era rimasta in mente e scrive Black Tie white Noise e canta “Getting my facts from a Benetton ad”. Faceva cultura, informazione attraverso la pubblicità. I suoi detrattori gli hanno sempre contestato di far vendere maglioni con la sofferenza altrui. Ma restano quelle immagini entrate nella cultura comune perché lui le ha realizzate, perché lui ha fatto si che in ogni città si potessero vedere preservativi colorati quando a malapena si sentiva pronunciare sottovoce la parola Aids o il corpo nudo di una modella anoressica quando tutti veneravano le modelle in passerella, fingendo di non vederne l’eccessiva magrezza. Nel 1998 Donna con bambino immortala una donna nera che allatta un bambino bianco, nel 1989 Manette, stesso accostamento cromatico, due uomini uno bianco e uno nero in manette. Ancora accostamenti cromatici nel 1993 per Il Lupo e l’agnello, ribaltandone i colori. Tornando indietro nel tempo, la celebre campagna Polaroid con Andy Wharol, Peter Sellers nel 1976 con l’impermeabile dell’ispettore Clouseau, lo sguardo indagatore di Federico Fellini nel 1975, il sorriso beffardo di un giovanissimo Mick Jagger nel 1973.
Le polemiche si moltiplicano, cadono a grappoli da ogni cosa che fa. Lui continua a scattare. Nel 1997 ferma in un istante un nugolo di foglie che galleggiano sull'olio nero. Il verde, il giallo e il rosso in contrasto con il nero del petrolio. Le foglie sembrano vive, quasi possono essere prese con mano per essere salvate dal petrolio che vorrebbe inghiottirle. Galleggiano sulle brutture, lievi e bellissime. “La mediocrità è perdere il fine attraverso i mezzi”.