L’immagine è perfetta. Nella luce, nelle linee, nelle ombre, nell’istantanea di una vita cristallizzata in un secondo.
Pulite, nitide, sempre assolutamente perfette. Le fotografie di Cecilia Mangini sono un esercizio di perfezione al quale allenarsi. Non di stile, non fotografa per sé, non usa artefatti, ma raggiunge quel punto profondo che va oltre la verità. La perfezione appunto.
“Cosa significa essere una fotografa? Significa spogliarsi di tutte quelle che sono le nostre idee preconcette e andare in cerca … non della verità, la verità non esiste. È andare in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, qualcosa di assolutamente nascosto … e la fotografia, come tutto ciò che è un’icona, lo rivela” scrisse una volta la fotografa, regista, sceneggiatrice, nonché prima documentarista italiana. Nata a Mola di Bari, dove il mare le insegna l’apertura mentale che la contraddistinguerà per tutta la vita. La capacità di rimanere focalizzata sulle singole persone, di essere sempre dalla parte degli ultimi. “Sono di sinistra, ma nel cuore. Ho un animo anarchico. Refrattaria al potere: il potere è escludente”.
In una delle sue ultime interviste, le chiesero cosa significasse essere di sinistra nel cuore e lei rispose “Un tempo ti avrei risposto: stare dalla parte della classe operaia, istruirla, darle il potere della conoscenza. Il fatto è che oggi la classe operaia non è più in un posto solo, è dappertutto. Il proletariato è economico, esistenziale, culturale. Bisogna riconoscerlo, capirlo. Basterebbe ripartire da Gramsci, rileggere le sue lezioni ai carcerati di Turi. Ma Gramsci a un certo punto si è voluto occultare, anche a sinistra. Dava fastidio”.
Nella sua lunga carriera ha immortalato i grandi del cinema: Vasco Pratolini, John Houston, Alberto Moravia, Federico Fellini, Cesare Zavattini, Pier Paolo Pasolini, Charlie Chaplin e poi il sud perso nella sua arretratezza economica, nella povertà ostinata che non dava via di scampo. È stata in Vietnam con Lino Del Fra tra il 1965 e il 1966 per realizzare un documentario sulla guerra. Nonostante i continui veti dei funzionari riesce a realizzare una serie di immagini dal forte impatto umano, mai ideologico, che svelano la normalità di una vita stravolta dalla guerra ma che cerca di resistere nei piccoli riti quotidiani delle feste di paese e delle passeggiate sulla via principale. “Nelle strade l'umanità vive, si dibatte, si diverte, soffre. Tutto questo è a disposizione di chiunque abbia una macchina con un obiettivo”.
Scatta più di mille immagini che andranno a formare un documentario che in realtà non porterà mai a compimento.
“Fotografare è una continua avventura perché le immagini pretendono di essere afferrate, rifiutano ostinatamente il destino di non restare per nessuno. L’immagine è lo sguardo del fotografo fissato nel momento in cui la afferra, questo sguardo non appartiene solo a lui, gli appartiene in quel preciso momento in cui la afferra, questo sguardo non appartiene solo a lui, gli appartiene in quel preciso momento e poi non più: è suo solo per un attimo, per il secondo del suo click, quando l’immagine viene eternizzata per tutti quelli che in futuro la vedranno”
Lavora con Pier Paolo Pasolini che aveva cercato sull’elenco telefonico, si era presentata, gli aveva parlato del suo documentario ancora muto con i segnacci. Lui dall’altro capo del telefono la ascolta, poi le chiede dove poteva raggiungerla, prende un autobus, vede il documentario, lo riguarda una seconda volta e va via. Dopo tre giorni la richiama dicendole che il testo era pronto. Nasce così nel 1958 Ignoti alla città liberamente ispirato a Ragazzi di vita di Pasolini. La mostra del Cinema di Venezia si rifiuta di inserire la pellicola tra i film in concorso, e in seguito il documentario riceve la bocciatura da parte della censura, in parte rientrata in seguito ad una battaglia parlamentare. Il disincanto dei ragazzi di borgata deve rimanere celato. Non visibile.
Ama il cinema e il modo in cui su una pellicola prende forma una vita intera. Nasce tutto dopo aver visto un film francese “Ho visto La grande illusione di Jean Renoir e mi sono liquefatta”.
Realizza un documentario che racconta la realizzazione del film di Jules Dassin La legge, per farlo torna nella sua Puglia a Carpino, dove vengono girati gli esterni del film.
Lavora ancora con Pasolini, in quello che è considerato uno dei migliori documentari italiani, La canta delle Marane, che racconta l’estate di un gruppo di ragazzini romani. “Pasolini è intervenuto a documentario montato. Ha preso appunti e, poi, ha realizzato i suoi commenti. Per me, La canta delle marane è un testamento anticipato di Pier Paolo. Si capisce con chiarezza il suo desiderio di essere annesso nel mondo delle borgate, di avere la ‘cittadinanza’ di ragazzo di vita; rimpiange la gioia e gli istinti antiautoritari di quel mondo” disse in seguito Mangini del loro lavoro.
La sua vita è stata intensa, il suo occhio sempre puro.
Una parte di ciò che i suoi occhi sono riusciti a catturare è in mostra a Bari, nella sede del Consiglio regionale dove sono esposte le sue foto, i suoi reportage, tutti rigorosamente in bianco e nero. Cecilia Mangini Visioni e Passioni è un omaggio ad una grandissima visionaria capace di guardare oltre il visibile.