Sull’onda emotiva dell’uccisione di John Fitzgerald Kennedy il presidente Johnson approvò il Civil Rights act.
La nazione continuava a veder morire i suoi figli in una guerra senza fine. I movimenti studenteschi divennero sempre più attivi e organizzati, la controcultura hippie stava dilagando e in questo clima una canzone cantata da una 23enne nera divenne l’inno degli afroamericani, delle donne e degli oppressi.
Era il 1967 e tutti gridavano quell’unica parola che in quegli anni sembrava fuori luogo, nuova, sovversiva. Una donna con la più grande voce mai esistita urlava Respect al mondo intero. Non lo chiedeva, lo pretendeva, lei cresciuta sulle gambe di Martin Luther King.
Il padre, il reverendo battista Clarence LaVaughn Franklin, trasforma la loro casa in un centro per la lotta all’emancipazione degli afroamericani e per la conquista dei diritti civili di tutti gli oppressi.
Aretha cresce ascoltando King, James Cleveland, Clara Ward ma anche Sam Cook, Nat King Cole, Duke Ellington, Mahalia Jackson.
Lei gira in autobus con Martin Luther King cantando canzoni di chiesa, sale su pulpiti e palchi improvvisati e inizia a cantare, con lei anche Harry Bellafonte.
La lotta per i diritti è al centro delle loro discussioni ma a Cook non sfugge quella voce destinata a grandi cose, la convince a tentare la carriera musicale e da lì è tutto in discesa.
La sua voce era potente correva veloce, più veloce delle altre e saliva in cielo per non discendere più. Un giorno ascolta una canzone di Otis Redding, bella, ma lei sa che può fare di più, può renderla più grande, più forte, universale.
Parla con la sorella Carolyn, nel piccolo appartamento di Detroit davanti alla finestra c’è il pianoforte. Lei suona e pensa alle parole, decidono di aggiungere un paio di frasi, per lo più slang, che la rendono più vera. Decide di aggiungere i cori quei “just a little bit” cantati dalle sorelle Erma e Carolyn, sceglie il sassofono per dare più anima alla canzone e ne aggiunge tre, quello di King Curtis, Willie Bridges e Charles Chalmers. A completare il quadro Gene Chrisman alla batteria, Tommy Cogbill al basso e Dewey Oldham alle tastiere.
Il 14 febbraio del 1967 negli studi della Atlantic Records si siede al piano e inizia a cantare “What you want? baby I’ve got, what you need, do you know I got it?”. La canzone schizza al primo posto nella classifica dei singoli più ascoltati e ci rimane per tre mesi.
Aretha Franklin suona, scrive e canta, come solo lei sa fare.
Prova a capire cosa significa per me, Rispetto, prenditi cura di me. Mi sono stancata di provare a continuare e non sto mentendo…potresti entrare in casa e scoprire che me ne sono andata.
Tutti sentono quelle parole come loro. Tutti provano la rabbia, la stanchezza, ma anche la forza di Aretha. Respect viene suonata e cantata come A change is gonna come di Sam Cooke. Diventa un inno per un sogno destinato presto ad infrangersi. L’anno dopo viene ucciso Martin Luther King e lei canta al suo funerale.
E’ il 1968 e pubblica Think “Pensa a ciò che stai cercando di farmi
Pensa. Lascia andare la mente, sii libero”. Ma questa è un’altra storia.