Il tratto chiaro e deciso della mano di Simone Massi realizza quadri che diventano i fotogrammi del suo primo lungometraggio Invelle.
In nessun luogo, Invelle, potrebbe essere nel centro Italia così come in qualsiasi paesino dell’entroterra questa storia che narra tre generazioni nel Novecento italiano.
“La base di partenza era autobiografica, ci sono tre personaggi che sono legati alla mia famiglia, poi però appunto in questa lunga gestazione mano a mano mi sono staccato dal racconto autobiografico e ho incominciato a impastarlo con visioni, con sogni, con racconti di altre persone, magari miei vicini di casa, e sono confluiti nella sceneggiatura anche dei frammenti di opere letterarie. C’è finito Pavese un pochino, perché non mi piace esagerare con gli omaggi, sicuramente un po’ di Beppe Fenoglio, probabilmente qualcosa di Garcia Lorca” spiega il regista Simone Massi in collegamento con il pubblico durante l’unica proiezione barese del film di animazione, resa possibile da Spine Bookstore e La scatola blu.
Tratti in bianco e nero, qualche sprazzo di colore, il filo della storia che si raggomitola su sé stesso, su ogni personaggio, come noi, somma di chi è venuto prima e di chi sarà, dopo di noi.
“Il film parla di me parla, ma anche di scuola, di cielo, di mare, di guerra e fra i tanti protagonisti che ci sono all'interno del film c'è anche l'entroterra che non è il mio entroterra perché nel film non sentirete mai la parola di un paese, di una città. È la mia città, il mio territorio ma può essere qualunque altro territorio d’Italia e Invelle significa proprio in nessun posto che per me significava tutti quei luoghi trascurati dimenticati dallo Stato, dai governanti, in cui le persone che lo coprono faticano più degli altri, non ottengono niente in cambio. Ci si ricorda di questo territorio solo quando serve la carne da macello che deve andare al fronte, quando serve da pagare le tasse. Per il resto sono luoghi dimenticati dallo Stato e mi sembrava che questa parola dialettale nostra rappresentasse un po’ tutto” continua Massi.
Gli occhi di Zelinda, sono porta su un mondo delicato e al tempo stesso duro, difficile, invisibile. Nel film ci sono le voci di Ascanio Celestini, Mimmo Cuticchio, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Toni Servillo, Filippo Timi, Giovanna Marini e Achille ed Emma Massi. Sceglie il dialetto e invita gli spettatori a “prenderlo come un suono, come una musicalità”. Il suono, le voci, arrivano nell’opera di Massi dopo anni di personaggi silenziosi e fuggevoli. Si affida al fasanese Stefano Sasso per creare questo doppio binario o come racconta lui stesso, un foglio immaginario, da un lato le immagini e dall’altro “Il suono, che non è in funzione dell'immagine. È un qualcosa che io utilizzo per raccontare quello che non voglio mostrare. Quindi c'è una regia visiva che vi fa vedere delle immagini e poi ce n'è una invece che è altrettanto importante e che racconta tutto quello che io ho lasciato fuori dall'inquadratura”.
Invelle presentato nella sezione Orizzonti al festival del cinema di Venezia lo scorso anno è uno scrigno prezioso.
Quando parla del suo lavoro, prima di Invelle, utilizza lo stesso incanto che traspare dalle sue immagini “io sono andato sempre senza rete, la forma breve mi consentiva di far nascere giorno per giorno queste storie che poi alla fine sono visioni, sono flussi. Poi è arrivato Invelle, immaginato la prima volta nel 2012, una gestazione lunghissima che mi ha permesso di dire tantissime cose nuove che io per trent'anni non avevo mai affrontato. Io sono una sperimentatore, ho sempre fatto della ricerca la mia ragione professionale. Il lungometraggio mi ha permesso di continuare questa ricerca. Perché con il corto andavo col pilota automatico, il lungometraggio mi ha fatto ripartire da zero. Io sono quel tipo d'autore che è obbligato a cadere per tirar fuori qualcosa di meglio”.
È una storia di contadini, come la sua famiglia. Lui nato poverissimo, iscritto a scuola a 23 anni, diventa uno dei più celebrati e premiati registi d’animazione italiani. Vince 900 premi, gira il mondo, ma ritorna sempre all’infanzia, alle sue radici. “Parlo di contadini perché ero e sono tuttora uno di loro e perché è una sorta di miracolo quello che mi è successo. Normalmente i figli dei poveracci non arrivano a fare i registi, non succede mai, quindi nel momento in cui mi è stato dato questo megafono, questa occasione per parlare, mi son sentito in dovere di non sprecarlo, ma non tanto per me, per il mio ego che conta anche poco, ma per tutte le persone che invece si sono ammazzate di lavoro nei campi e che mi spingevano a raccontare la loro storia. Era un'occasione unica per uno come me e non andava sprecata”.