Se solo si potesse ascoltare una voce, comprendere un testo senza ricorrere ai sottotitoli, udire una musica, una canzone che abbia un senso.
Chiara è l’alba, nel cielo sempre più blu, mentre si spengono gli ultimi inutili commenti sui brani e le interpretazioni dei trenta interpreti della settantaquattresima edizione di Sanremo, il festival che celebra la canzone italiana.
Le canzoni si susseguono una dopo l’altra con bastoni di scope, piccoli gesti preordinati, nulla è lasciato al caso, tutto programmato, preordinato, cronometrato, nessuno spazio per l’improvvisazione. Sfilano interpreti con autotune, orchestrazioni ardite, campionature, copia e incolla, nella scia del moderno, del vendibile, del ballabile, tutto seguendo logiche di mercato. Manca la poesia, l’istante in cui una canzone diviene emozione. Non un brivido, un trasalimento. Poi arriva lui, Ghali che conversa con un alieno e allora la voce diviene grido, la realtà affrontata senza schermi, crudele come la banalità del male che si accanisce contro una popolazione nella forzata indifferenza. “Il prato è verde, più verde, più verde Sempre più verde (sempre più verde)Il cielo è blu, blu, blu Molto più blu (ancora più blu) Ma che ci fai qui da queste parti Quanto resti e quando parti ... Ma, come fate a dire che qui è tutto normale Per tracciare un confine Con linee immaginarie bombardate un ospedale Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane Non c’è mai pace...Casa mia, Casa tua, Che differenza c’è? Non c’è Ma qual è casa mia Ma qual è casa tua Ma qual è casa mia Dal cielo è uguale, giuro”.
E allora basta una piccola voce fuori dal coro per dare un senso a tutto. In altri anni denunce di altri conflitti erano accolte con fanfare. Oggi tutto tace se non la voce di Ghali. E tutti ci trinceriamo dietro un gioco che detta regole estranee.