Francis Scott Fitzgerald aveva disegnato per sé una vita ben precisa e ha fatto in modo che il mondo intero si fermasse ad ammirarla.
Ad ammirare quella luminosa e grandiosa esplosione di fuochi di artificio che era.
Ma cosa c’era dietro lo sfavillante luccichio della vita di Francis e Zelda?
Lo scopriamo nel libro Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori edito da Minimum Fax.
Perché è nelle lettere che si scopre che nulla nella sua vita ha avuto a che fare con il caso. Tutto è stato studiato, anche maniacalmente, come il tono di azzurro delle copertine dei suoi libri. Era ossessionato dai particolari e dalla perfezione di tutto ciò che ruotava intorno ai suoi libri. Dalle piccole curiosità come il perché della scelta del titolo di Di qua dal Paradiso, preso dai versi di Rupert Brooke “…si, di qua dal paradiso c’è ben poco conforto nel savio” a cosa c’era dietro quest’uomo dal talento infinito.
Si impara a conoscere l’uomo dietro quella vita vissuta sempre oltre ogni riga. Si comprende meglio il suo rapporto con Zelda della quale scrisse “l’influenza più immensa su di me l’hanno avuta l’assoluto, raffinato e totale egoismo e la gelidità mentale di Zelda”.
Scott e Zelda, una storia nella storia. Due vite che si sono alimentate a vicenda e sono poi implose ognuna nel suo male.
“E’ possibile che i cinque anni trascorsi tra il mio congedo nel 1919 + la conclusione di Gatsby nel 1924, che comprendono tre romanzi circa 50 racconti + una commedia + numerosi articoli + film mi abbiano portato via troppo presto quello che avevo da dire, con l’aggravante che abbiamo continuato a vivere alla massima velocità nei mondi più gaudenti che riuscivamo a trovare. Questo au fond è ciò che mi preoccupa davvero”. Disincantato, disilluso. Lui che aveva fatto dell’incanto la sua cifra stilistica.
A Zelda scrisse “stavi dando i numeri e lo chiamavi genio - io mi stavo distruggendo e lo chiamavo come veniva. E credo che chiunque fosse a distanza sufficiente da vedere dall’esterno la nostra disinvolta rappresentazione di noi stessi potesse indovinare il tuo egoismo quasi megalomaniaco e il mio folle buttarmi sul bere. Verso la fine nulla contava più…ognuno ha distrutto se stesso, ma non ho mai pensato che ci siamo distrutti a vicenda”.
Zelda la sua musa, la sua continua fonte di ispirazione, che amava e odiava e invidiava. Quando lei osò scrivere un libro lui dopo averlo letto le scrisse “hai raccolte le briciole che lascio cadere dalla tavola da pranzo e le hai ficcate nel tuo libro. Tutto quello che abbiamo vissuto è mio…sono io il romanziere di professione e sono io che ti mantengo. Questo è materiale mio”.
Aveva un ego smisurato rinchiuso nella mente di un uomo dall’intelligenza lucida e fine. Una convivenza impossibile.
In una lettera scrisse che Tom Buchanan de Il Grande Gatsby “suppongo che sia il miglior personaggio che io abbia mai creato, penso che lui, il fratello in Salt e Hurstwood di Sister Carry siano i tre migliori personaggi della narrativa americana degli ultimi vent’anni o forse no”.
Infondo era Francis Scott Fitzgerald. Un uomo dal talento smisurato che non ha mai saputo gestire. Il suo ego si gonfiava e alimentava del consenso che gli pioveva addosso copiosamente come nel 31 dicembre del 1925 quando ricevette una lettera dal futuro premio Nobel T.S.Eliot che dopo aver letto per tre volte di seguito Il Grande Gatsby lo definì “il primo passo avanti del romanzo americano dai tempi di Henry James”. Era una continua altalena tra la gloria e l’umiliazione, bagnata, infracidita dall’alcool che nella sua vita scorreva a fiumi.
Sul New York Times Edith Walton scrisse “ormai è un tremendo luogo comune dire che il lavoro di Fitzgerald raramente è degno del suo talento . Purtroppo, però, questa frase fatta è vera. La maestria stilistica di Fitzgerald è così assoluta - una penna rapida, sicura, nitida, solida - che anche le sue opere più insignificanti sono nobilitate dalla sua perizia tecnica”. Sempre così, in bilico tra la grandezza e il baratro. Sempre lì a voler dimostrare di essere il numero 1, sempre a far confronti e raffronti.
Ernest Hemingway è stato una ossessione costante per lui. Ciò che scriveva, il modo in cui era se stesso nel mondo, la facilità con cui era grande a differenza sua che non ha mai trovato la posizione giusta nell’ingombro pesante del suo talento.
In uno dei tanti momenti di sconforto, subissato dai debiti e dalla necessità di guadagnare cifre esorbitanti per mantenere lo stile di vita al quale aveva abituato Zelda, ormai malata e Scottie la figlia, scrisse “Una volta parlavo con Ernest Hemingway e gli ho detto che, contrariamente a quanto si pensava allora, io ero la tartaruga e lui la lepre, ed è la pura verità, che tutto ciò che ho raggiunto nella mia vita l’ho ottenuto con una lotta lunga e tenace, mentre Ernest possiede un tocco di genio che gli consente di portare a termine cose straordinarie con facilità. Io non ho la stessa facilità. Mi riesce facile essere dozzinale, se proprio voglio. Posso fare cose dozzinali”.
Hemingway l’uomo allo specchio con il quale si è confrontato per tutta la vita, con un rimando a volte benevolo altre fonte impregnato di una profonda frustrazione. All’amico dopo aver letto Addio alle armi, scriveva “Caro Ernest, è un romanzo magnifico, scritto meglio di come avrebbe potuto fare chiunque altro”, al suo agente “Io scrivo con l’autorità del fallimento. Ernest con l’autorità del successo. Non potremo mai più stare seduti allo stesso tavolo”.
Questa incapacità di stare dietro alla sua stessa vita lo ha gettato in uno sconforto dal quale non si è mai ripreso “Allora pensavo che fosse tutto facile - dimenticavo di aver estratto Il Grande Gatsby dal baratro del mio stomaco in un’epoca di infelicità. Mi sono risvegliato a Hollywood e non ero più la solita persona egoista e risoluta ma un miscuglio di Ernest vestito a festa e di Gerald in carriera e di Charlie McArthur con un passato. E tutti quelli che riuscivano a farmelo credere, come Lois Moran, mi erano preziosi…in quella situazione mi sentivo sfruttato, non da te, ma da qualcosa di assolutamente intollerabile, la mancanza di felicità”. Doveva scrivere, scrivere, qualsiasi cosa. Libri, racconti, articoli, sceneggiature, adattamenti teatrali. Quando ormai non scriveva più per sé ma per gli editor disse “E’ come se uno tirasse l’acqua dal pozzo goccia a goccia, perché ha troppa sete per aspettare che il pozzo si riempia. Magari avessi la fortuna di potermi fermare!”
Ma anche in quei momenti di sconforto era sempre in grado di essere un bagliore nel buio della vita quotidiana, come quando in una brevissima lettera a Zelda, appena poche righe, salutandola scrisse “tuo in questo postaccio della vita e del tempo”.