Lei è una donna indomita e assetata di vita. Bellissima, spregiudicata e famosa anche oltre i confini italiani. Lui un poeta alle prime armi.
Ancora sconosciuto ma dal genio assoluto. Sibilla Aleramo decide di voler conoscere Dino Campana dopo aver letto i suoi Canti orfici, gli scrive una poesia “…cuor selvaggio o musico cuore, chiudo il tuo libro le mie trecce snodo”.
Prende un treno il 3 agosto del 1916 e nel pieno della prima guerra mondiale va incontro al suo destino.
Il loro amore fu una “deflagrazione” come scrisse anni dopo Mario Luzi. Passione, risentimento, gelosia, possesso, tenerezza.
L’intensità e la profondità del loro amore fu ben chiaro ad entrambi già dopo il primo incontro, di cui lei scrisse “Perché non ho baciato le tue ginocchia?…i nostri corpi su le zolle nude, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me!”.
Un amore che rivive nelle infinite lettere che i due amanti si sono scritti per tre anni e raccolte nel libro Un viaggio chiamato amore (Feltrinelli editore).
Ed è stato un lungo viaggio la vita di lei che veniva chiamata l’errante, per quel suo continuo vagare di luogo in luogo. Lei che si fermò e fece il nido in una casa solo dopo aver passato i 50 anni.
Lui prima di lei era già alla ricerca di realizzare “l’inquietante progetto di essere Dino Campana”. Giovanissimo aveva già viaggiato oltre oceano, fatto il pianista in un bordello, costruito ferrovie, fu arrestato innumerevoli volte e altrettante rinchiuso in manicomio.
Uno dei tanti bollettini medici parlava di “uno stato mentale aggravato da abuso di alcool e caffè”.
Era irrequieto per natura e spesso si rifugiava nei suoi amati boschi.
Troppo diversi per poter vivere un amore placido e tranquillo.
Nell’ottobre del 1916 lui le scrive “Rina adorata, perdonami, perdonami o abbandonami così è troppo cara cara, non so ti scrivo ti aspetto e so che non verrai…Rina Rina Sibilla Aleramo Rina che amo Sibilla mia sì ridi cara, ridi così io sarò felice e potrò morire”.
Lei continua a viaggiare, frequenta i salotti, scrive e porta avanti le sue battaglie per l’emancipazione femminile, per il diritto al voto e contro la prostituzione. Intesse relazioni e collaborazioni con Maria Montessori, Ada Negri, Matilde Serao, Anna Kuliscioff.
Lui le dedica poesie indimenticabili “In un momento sono sfiorite le rose, i petali caduti, perché io non potevo dimenticare le rose. Le cercavamo insieme. Abbiamo trovato delle rose. Erano le sue rose, erano le mie rose. Questo viaggio chiamavamo amore. Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose. Che brillavano un momento al sole del mattino. Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi. Le rose che non erano le nostre rose. Le mie rose le sue rose.
P.S. E così dimenticammo le rose”.
Ma l’amore tra i due è sempre un saliscendi di montagne russe, la malattia di lui lo porta sempre più frequentemente a ricoveri forzosi, l’impegno e la voglia di cancellare il suo doloroso passato portano Sibilla a volare più che può, senza mai adagiarsi.
Nel 1917 lei scrive “Non so quel che la vita vuole da me. Se debbo resistere in questa solitudine, in questa preghiera di ogni istante: rinunciare a rivederti, restare per sempre con questo sapore di terra in bocca; salvarti con la mia rinuncia, col farmi amare da lontano”. Si scrivono entrambi “perdonami” una infinità di volte, si allontanano, si avvicinano per questo amore che non può essere spezzato ma neanche vissuto.
Il 12 gennaio del 1918 Campana viene fatto internare per decisione del sindaco di Lastra a Signa, il 19 gennaio le scrive “Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quel che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi. Ti prego, tuo Dino”.