Nell’ora dell’attesa, che precede l’ineluttabile e improrogabile decisione, mentre il cuore sobbalza, tutto è avvolto da una calma apparente.
Sull’acqua scivolano graziosi gabbiani e il loro bianco è scintillante nel rosa di un estivo tramonto che anticipa una notte di stelle.
Lungo il molo che disegna una curva disdegnando le rette che sanno di precisione e razionalità, il cemento armato cede il suo grigiore a più dolce colore.
Una nuvoletta solitaria osserva tutto dall’alto e sembra immobile nell’assenza di vento.
Non è tempo di issare le vele, gli alberi maestri devono ancora attendere. Il gozzo forse, due remi e una bassa cilindrata al motore, per lasciare la terra e prendere il mare. Abbandonare inutili pesi e catene di regole inopportune e godere della libertà dello spazio ampio, immenso e di profondità sconosciute.
Da questa riva osservo lo specchio d’acqua nel quale non mi rifletto, un pesce cerca una razione di cibo.
Il rosa corallo dipinge sfumature inaspettate come petali di fiori lontani, come doni preziosi da affidare alle correnti.
Un sasso levigato a forma di freccia indica il largo.
Andare, lontano, dove il mare è più blu, dove la costa non è che un ricordo e il tempo è quello di un giorno a cui segue una notte.
Le campane dell’orologio del vecchio campanile suonano, sette rintocchi acuti e uno breve. Le 19.15.
È giunta l’ora. Partire. Salpare. Andare. Eppure non sei ancora qui, mentre aspetto mi chiedo se arriverai.
Il sole tuffandosi nel mare spalanca un ultimo sorriso, non è per me. Ti ha visto arrivare, una camicia blu. Andiamo.