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Come una capasa

Come una capasa

Contenere, comprendere, accogliere, essere capace. 

Come una capasa o un capasone, il più grande tra i suoi fratelli, figlio piccolo di una giara che ha perso le anse, braccia per farsi accogliere e di una dalia romana dove mescere vino per portare ebbrezza.

Cugino di un’anfora, sottile, alta, elegante, a collo distinto o panatenaica, dono per i vincitori delle competizioni in onore della dea Atena alle Panatenee.

Padre dell’anforisco che punta i piedi e profuma di olii.

Divenne unità di misura tra i greci e i romani, pari a poco meno di 20 litri per i primi e di 26 per i secondi. Tutto è storia intorno a lei, anche i suoi cocci, che hanno dato il nome ad un quartiere romano, Testaccio, il monte dei cocci,  un tempo discarica di anfore e giare in terracotta. 

Ha attraversato i mondi conosciuti dalla Siria all’Italia, l’anfora di Baratti, recuperata dai fondali del mar ligure dal pescatore pugliese Gaetano Graniero. In argento, con 132 ovali dedicati a Zeus, Afrodite, Ares, Dionisio, Atena, Apollo, meraviglia di Antiochia.

Oggi tra i vicoli di Puglia, sulla loro pelle non narrano più storie, ma sono assolute: azzurre, rosse, verdi, gialle. 

Anfore che di antico mantengono la capacità di contenere e non disperdere, anche se restano solo ornamenti da giardino. Il passato è spazzato via, passati gli anni in cui Zi' Dima Licasi poteva perdersi dentro, intrappolato sino alla rottura in mille cocci arrivando solo così alla liberazione.

Passati i tempi del vino, dell’olio e delle granaglie. Del tempo in cui si stratificavano gli averi, per gustarli nel freddo inverno. Resta la forma, la pancia arrotondata, la bocca aperte e le labbra ricurve.

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