L’umidità gela le ossa, la nebbia offusca la vista. Le gondole seguono una lenta marcia che accompagna Ezra Pound nel suo ultimo viaggio.
In quel 1 novembre 1972 Paolo Roversi, appena 25enne, viene inviato a Venezia per fotografare l’ultimo saluto della città al poeta.
La sua collaborazione con l’Associated Press era iniziata appena due anni prima e dalla camera oscura allestita nella sua cantina con l’amico postino Battista Minguzzi è stato come un battito d’ali.
Per Roversi “Una fotografia è sempre una domanda mai una risposta” e quel punto interrogativo privo di giudizi e sentenze e visibile in ogni suo scatto. Si percepisce il vuoto, l’assenza di orpelli e distrazioni “mi piace isolare il soggetto, farlo diventare il centro del mondo intero” spiegherà lui.
E quel mondo è quasi esclusivamente in bianco e nero, anche i colori sono elementi che spostano quel centro, così lui li elimina.
Viaggia e fotografa tutto con la sua Deardoff e la Polaroid grande formato.
Ci riporta le sconfinate vedute dello Yemen, in cui si perde tra luoghi, oggetti e persone. Un gruppo di bambini, spaventati, curiosi, sorridenti. Va sino in Lapponia in quel interminabile freddo che trasmette con il suo bianco assoluto. E poi i ritratti e le fotografie di moda.
“Una musa è vento che ti porta al largo” e lui ne ha avute tante. Naomi Campbell, che dietro il suo obiettivo diventa guerriera, amazzone, regina, una bambina spaurita. Tutto e il contrario di tutto.
E Natalia Vodianova, la più bella di tutte, un angelo senza ali. Ricorda in ogni scatto l’insegnamento trasmessogli negli anni Settanta da Lawrence Sackmann, “gli occhi e la mente devono essere sempre liberi”. E lui libero vola sulle piccolezze e le rende grandi e belle.
Nelle sue foto il tempo non esiste. Sono qui e sono altrove. Ma hanno spesso il sapore della Parigi di inizio Novecento. Sarà perché Parigi è diventata la sua città d’adozione nel 1973 e non l’ha più abbandonata.
Roversi cerca la sua Giulietta nel calendario Pirelli 2020, primo fotografo italiano chiamato a realizzarlo. Ma alla fine il suo lavoro parla sempre di bellezza che è una linea sottile tra gli opposti. “Ricordo che un giorno una signora mi ha chiesto cosa fosse per me la bellezza. Le ho risposto che non sapevo definirla, ma che una linea sottilissima separava luce e buio, realtà e sogno, verità e menzogna, e la bellezza aveva in qualche modo a che fare con quella inscindibile relazione tra opposti. A quel punto, la signora mi ha detto: forse la bellezza è proprio la linea. Penso avesse ragione: la bellezza è quella linea, che col tempo continua ad assottigliarsi.”
Se la bruttezza dei tempi che stiamo vivendo, che si spande anche sulle parole che ci confinano, finirà, potremo camminare tra le sale del Mar (Museo d’arte della città di Ravenna) per restare in bilico nel tempo con Paolo Roversi. Con il cuore che sussulta ad ogni scatto. Perché “alla fine la fotografia è solo una questione d’amore”.